La storia dell’economia insegna che dopo una crisi c’è sempre una ripartenza. L’Italia in questo momento in ce fase si trova?
«Il ciclo economico ha delle cause e degli effetti; è vero che dopo una crisi c’è una ripartenza però non c’è nulla di deterministico in questo. C’è una ripartenza se vi sono le condizioni e se le famiglie, le imprese e i governi fanno le scelte giuste, ma è bene non confondere una ripartenza con un boom economico. Certamente c’è una ripresa in atto: le stime si spingono fino al 5% in termini di aumento del PIL per il nostro Paese e, tuttavia, questo sconta il crollo dello scorso anno che è stato notevole - circa il 9% - anche se il reddito disponibile delle famiglie è diminuito in misura più contenuta grazie anche al sostegno pubblico. Quindi, io direi che tutti questi elementi ci dicono che è in corso una ripresa, anche sostenuta, a fronte di un crollo che è stato significativo. Detto questo, con queste cautele e con un po’ di prudenza, io direi che certamente siamo in una fase di ripresa, non vedo ragioni particolari per essere eccessivamente pessimisti e anzi, al contrario, per non nutrire delle aspettative positive per il prossimo futuro. Ovviamente se noi allunghiamo un po’ lo sguardo e usciamo dal breve termine, dico che nel medio termine, poi, molto dipenderà dalla postura delle politiche europee, sia quelle di bilancio - e quindi la revisione del patto di stabilità e di crescita - sia delle politiche monetarie che per il momento sono accomodanti; quindi se queste politiche saranno più o meno espansive o più o meno restrittive».
L’innovazione può essere considerata un elemento anti-crisi?
«L’innovazione non è soltanto una componente per uscire dalla crisi - non solo in funzione anticiclica - ma ormai è un elemento portante, strutturale dell’economia. La trasformazione era già in atto, ma la pandemia l’ha accelerata. In una crisi, generalmente, tendiamo a vedere soltanto gli aspetti negativi - se si vuole tanti meno che si accumulano davanti agli indicatori - in realtà molte cose avvengono durante una crisi anche quando la crescita è zero; lo zero in realtà è una media tra andamenti che sono differenziati. Quindi, in un’ottica che gli economisti direbbero schumpeteriana, la crisi è una sorta di setaccio che separa le aziende lungimiranti e che innovano da quelle più fragili. Ci vuole anche una politica dell’innovazione, al di là dell’innovazione che le imprese, come singoli, portano avanti.
L’innovazione è tanto più importante nel contesto di queste due grandi trasformazioni epocali - che poi sono diventati anche due grandi obbiettivi della politica italiana ed europea - cioè trasformazione o la transizione tecnologico-digitale da una parte e quella ecologico-sociale dall’altra. Certamente le aziende che riescono, in questo solco, a mutare i processi e a rinnovare i prodotti avranno un vantaggio competitivo, lo vediamo anche con le nuove regole, i nuovi standard e i nuovi tetti che si fissano in materia ambientale. Da ultimo, aggiungerei che l’innovazione non è soltanto quella di prodotto e di processo ma può essere anche innovazione istituzionale»..
La pandemia ha messo in ginocchio molte aziende. Quali sono le caratteristiche delle imprese più resilienti?
«Era inevitabile che un fermo all’attività produttiva creasse delle difficoltà all’offerta e a tutte le imprese, quindi c’è un elemento generalizzato nella pandemia. Il Governo ha fatto molto bene - non solo quello italiano ma un po’ tutti i a sostenere - e il Governo italiano l’ha fatto anche in misura maggiore rispetto agli altri Paesi, il sistema economico nel suo complesso; oggi vediamo che un po’ di deficit in più ha consentito una tenuta complessivamente migliore. La crisi è stata generalizzata per certi aspetti, però direi che l’elemento fondamentale è che ha avuto un carattere fortemente settoriale: alcuni settori sono stati colpiti più di altri. Certamente chi ha saputo riorganizzarsi rapidamente, e chi ha potuto, è riuscito a resistere meglio. Sarà soltanto con il tempo che potremo trarre un bilancio effettivo, cioè quando tramonteranno i sostegni e può darsi che a quel punto il bilancio sia un po’ più pesante».
La difficoltà di accesso al credito può essere un limite per la ripartenza delle imprese italiane?
«Di solito in una crisi, lo abbiamo visto anche nella grande recessione del 2007-2008, si assiste ad una sorta di ping pong delle responsabilità: le banche tendono a dire che gli imprenditori non prendono il credito e gli imprenditori che le banche non lo concedono o non lo concedono facilmente. È stato così durante la grande recessione. Io direi che al netto delle grandi difficoltà che ci sono, complessivamente ha prevalso una maggiore responsabilità da entrambe le parti anche grazie al sostegno pubblico e alle varie forme di supporto pubblico, dalle garanzie alle moratorie. Ovviamente c’è un tema prospettico perché le difficoltà ci sono; questo tema è legato ai crediti deteriorati. Direi che la tenuta del sistema bancario è stata complessivamente buona, così come è emerso anche nelle considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia lo scorso maggio, complessivamente buona al netto di situazioni di difficoltà che evidentemente ci sono, buona anche in rapporto ad altre crisi precedenti, certamente le aggregazioni nel mondo bancario di cui si parla in questi giorni potrebbero contribuire ad un ulteriore consolidamento. Certamente la politica monetaria accomodante crea alle banche dei problemi di redditività, dall’altra parte diciamo che rende meno difficile per le imprese prendere il credito. Questo complessivamente - senza negare che esistono delle situazioni di difficoltà soprattutto in merito ai crediti deteriorati - e questo pone quel tema europeo che penso vada affrontato nel corso del 2022 prima che tramontino quelle forme di sostegno che potrebbero fare emergere situazioni più gravi di difficoltà».
Esiste nella storia economica un periodo che può essere paragonato a quello attuale?
«Questo periodo ha delle peculiarità. Ovviamente le pandemie ci sono sempre state ma le caratteristiche dell’economia globalizzata, insieme alle caratteristiche della pandemia, rendono questo momento senza precedenti. Forse c’è troppa enfasi sul parallelo tra ricostruzione post bellica e ricostruzione post pandemia; i due contesti sono molto diversi perché la guerra era durata più a lungo (per cinque anni) e perché aveva provocato delle distruzioni enormi, e anche perché i problemi del dopoguerra furono in larga parte molto diversi da quelli cha abbiamo oggi, per esempio una inflazione molto elevata, quindi ci sono molte limitazioni ad ogni accostamento. Io penso che non sia inutile il richiamo allo spirito del dopoguerra, cioè a quello spirito della ricostruzione collettivo che animò quegli anni E che ispirò governi, imprese e famiglie, ma diciamo che si tratta più di un richiamo ideale piuttosto che un richiamo fattuale. C’è un altro riferimento che vale la pena di citare, quello della stagflazione degli anni ’70. Di recente Nouriel Roubini ha detto “attenzione ad un ritorno della stagflazione degli anni ’70” cioè ad una condizione di ristagno dell’economia con elevata inflazione, e lo dice perché preconizza il ritorno di un’elevata inflazione che probabilmente non è alle porte. L’aumento dell’inflazione recente sembra avere delle caratteristiche congiunturali e non strutturali. Quindi io direi che la storia e i confronti storici sono molto importanti, ci aiutano a capire meglio e a ragionare meglio, tuttavia la pandemia ha avuto dei caratteri di eccezionalità».